Nick: Strider Oggetto: facebook e dintorni Data: 19/2/2009 21.39.29 Visite: 348
La tecnologia sta facendo passi da gigante nell’inventare cose assolutamente inutili. Facebook è un esempio di questa gaia futilità globale. Allora mi chiedo cosa sia questa sensazione di pesantezza, dopo una giornata trascorsa su Facebook, mentre dovrei sentirmi più leggero. Il cellulare, Skype, Facebook, la televisione della gente: più si aumentano le possibilità di comunicazione virtuale, più cresce lo smarrimento, la pesantezza di tutto il “non detto”. La tecnologia (e non poteva essere altrimenti) non può produrre emozioni. Può solo fingerle. La pesantezza dipende dall’anaffettività. Da una comunicazione apatica, o psicopatica, perché spersonalizzante (o moltiplicatrice delle personalità, basti pensare alla spersonalizzazione dei nickname) figlia dell’onnipotenza infantile. Prima di iscrivermi a Facebook ero un uomo solo. Tre giorni dopo ho 400 amici, ma sono più solo di prima. Questo senso di vuoto, di non appartenenza, più si appartiene a comunità virtuali, è riscontrabile soprattutto negli indifesi: i giovanissimi. Iscritti a mille gruppi, eppure mille volti più soli di noi alla loro età. Più sono presenti in rete più hanno sguardi assenti. Un’interiorità vacante. Trovo meraviglioso che si possa chattare con un coetaneo coreano o sudamericano, ma questa strabiliante possibilità offertaci dalla tecnologia non può farci dimenticare il cosa dirsi e il cosa darsi, altrimenti è un’illusione più perniciosa del non parlarsi affatto. Un “come se” che ti si rivolta contro. Detesto il passatismo, ma forse si faceva più esperienza andando ai giardinetti che passando i pomeriggi su Internet. Perché il problema, alla fine dei giochi, è: che cosa mi rimane? La fascinazione seduttiva dei mondi virtuali può lasciarci qualcosa di più di una serata trascorsa a leggere “Grandi speranze” di Dickens o di una giornata al mare?
Diego Cugia |