Nick: Kashmir Oggetto: 4 caffè e un sorriso Data: 30/10/2004 10.20.59 Visite: 127
Sfogliava le pagine di quel giornale sporco di caffè con una velocità ansiosa, come se avesse fretta, ma fretta non ne aveva, quella sera sarebbe dovuto entrare al lavoro più tardi e non c'era nessuno col fucile puntato dietro alla sua testa. Non ancora. A volte si chiedeva cosa ci facesse lì, perché aveva ordinato già tre caffé e ancora si sentiva stanco, stanco di alzarsi, di andare a pagarli, di guardare il culo della cameriera mentre si piegava per raccogliere dei tovaglioli che, casualmente, lui faceva cadere di continuo. Per Paul, il culo di Tiffany era l'unica cosa gradevole di quel bar puzzolente e pieno di anziani che aspettano la loro chiamata dal cielo fumando un sigaro dopo l'altro, e parlando di football, come se gliene fottesse qualcosa, e nel frattempo se gli guardavi negli occhi sapevi che stavano pensando ad altro, che si stavano chiedendo se per caso non avessero buttato la loro vita nel cesso. Ma era l'unico bar nel giro di venti miglia, l'ufficio era di fronte, quindi era l'unico posto dove lui poteva ordinare il quarto caffè. "Vuole dell'altro, signore?" Chiese Tiffany, con quella voce da adulta cresciuta male che vuole fare la bambina. "Si, portami un altro caffè...ops, mi sono caduti i tovaglioli, me li raccogli per favore?" Lei si piegò ingenuamente, sorridendo, a raccogliere quei tovaglioli, a volte nessuno riusciva a capire se lei fosse davvero ingenua, o che si era arresa al fatto che era il suo culetto che le permetteva di avere quel lavoro. Paul guardò a lungo quel panorama, anche quando lei si era già alzata; si stava iniziando a fare schifo, un malato sessuale a 43 anni, allora cominciò a chiedersi se era lui o erano i vecchietti ad aver buttato la loro vita nel cesso. Squallido. Era tutto troppo Squallido. Dopo un ora passata tra litri di caffè, giornali sporchi, camice puzzolenti e il culo di Tiffany, si recò a lavoro, con quella pancetta accennata, causata dall'alcool, puramente dall'alcool. Entrò in ufficio e tutti lo salutarono sorridendo, prese posto sulla sua scrivania, disordinatissima come sempre, prese le sue pratiche, iniziò a fare qualche telefonata, e il tempo scorreva, e lui non se ne rendeva conto, o forse sì ma non voleva, per non fare la fine di quei quattro fumatori accaniti di sigari perennemente seduti a quel tavolino. Toc toc... "Avanti" Era Samuel Smith, il suo direttore, che entrò col sorriso a trentaduedenti, e quell'aria altezzosa da chi aveva una camicia pulita, perché aveva una moglie che gliela lavava, ma nessuno lo considerava fortunato, aveva tante di quelle corna...meglio avere una macchia di caffé sulla camicia che avere una moglie che, tra una camicia e l'altra, faceva uscire una sveltina. "Ciao Paul, questa è la nuova impiegata, Judith, lavorerà nel reparto accanto, spero che diventiate buoni amici e, mi raccomando, falla ambientare!" "Non c'è problema, Sam" "Dottor Smith." "Hai ragione, scusami Sam" Smith lasciò l'ufficio con la faccia amareggiata, chiudendo di scatto la porta per mostrare che era arrabbiato, ma nessuno gli dava peso, doveva arrabbiarsi con la stiratrice di camice che aveva a casa, e non con quei quattro sfigati che lavoravano da lui. Judith guardò timidamente Paul, gli strinse la mano e gli sorrise, con quelle labbra che sembravano due petali di rosa, forse per i 3 strati di rossetto o forse perché Paul le avrebbe assaggiate volentieri, sembravano maledettamente morbide. La ragazza aveva 27 anni, veniva dal Texas, lasciò la casa in cerca di fortuna, e fino a quel momento trovò solo quel posto, però le bastava, era un trampolino di lancio per lei che era così ottimista. Lui non era arrapato come al solito, le faceva tenerezza quella piccola "new-entry"; dopo un paio di settimane cominciò a chiamarla "Judy", nella pausa pranzo andavano insieme al bar, a mangiare quel tramezzino vecchio e scaldato che per Paul sapeva di merda, ma per Judy sapeva di "antico, vissuto". Era una luce, una luce perpetua, vedeva del buono in tutti. E forse aveva ragione. Paul quel giorno li raccolse da solo i fazzoletti. Tiffany lo guardò stranita, ma dopo pochi secondi sorrise e andò alla cassa con un passo allegro, non si sentiva usata quel giorno; cazzo, quello era un bar, non un night. Paul parlava molto con Judy, le raccontava della sua vita, di quanto si fosse allontanato dalla sua famiglia ignorante e violenta, di quanto non gli interessasse più nulla di nessuno. Il fratello stava morendo, ma era troppo tardi per andare da lui e stargli vicino, erano arrivati quasi ad odiarsi. Ma lui lo sapeva, il fratello John aveva un tumore che lo si espandeva, lo divorava, e non gli restava troppo da vivere. Judy tentò tante volte di convincerlo a correre da lui, di salutarlo, di perdonarlo, finché era in tempo; di dargli l'opportunità di godersi almeno quel mistero che c'è dopo la morte, con l'anima in pace. Paul non voleva dargli quest'opportunità, si erano troppo odiati, John gli aveva rubato la donna della sua vita, stavano insieme da dieci anni, John gliela portò via con l'astuzia, dicendogli cose orribili nei riguardi di Paul...lei gli credette, lui la perse, per sempre. E la sua vita iniziò man mano a rovinarsi. Ora John non avrebbe potuto mai più nuocere a nessuno. La sera Paul tornò a casa, pensando a Judy, alle sue parole, al suo ottimismo, alla sua serenità, e si addormentò tranquillo. Squilla il telefono. Sono le 4:04, si sente una voce roca dall'altra parte della cornetta, un pò strozzata da qualcosa, dal dolore forse. "Paul, sono Sam." "Che è successo? Dev'essere grave se non ti fai chiamare Dottore..." "Judy...." "Cosa??" "E' stata coinvolta in una sparatoria, i proiettili hanno colpito organi vitali, non so se ce la fa.." Paul aveva già attaccato il telefono, corse verso l'ospedale con un'ansia assurda, piangeva, non aveva mai pianto per una donna che non fosse Elisabeth, quella rubatagli dal fratello. La raggiunse, corse verso la stanza, in fondo al corridoio, col cuore che batteva all'impazzata e le lacrime che entravano in bocca, e avevano quel sapore salato misto a sudore, e a dolore. Judy era sul letto attaccata ad una flebo, era pallida, bianca, ma sorrideva come al solito, non aveva paura di niente. Lui le implorava di resistere, le implorava di non andare via, le diceva che era diventata importante, la sua migliore amica, ma lei gli fece una carezza, debole, e gli disse: "Quando ero piccola, mi operai d'appendicite, sarà una sciocchezza, ma io avevo 8 anni e nessuno stava con me, i miei erano a lavoro e mi sentivo sola...li volevo anche se eravamo in cattivi rapporti....piangevo e mi faceva male la pancia." "Ora ci sono qua io, piccola." "Non sono solo io che ne ho bisogno, ora. Ti prego, non fare come mamma." "No, io da qui non mi muovo." "Non dicevo per me..." Si addormentò subito dopo, diventava sempre più pallida. Il cuore non batteva più. Al suo funerale lui fece il suo discorso, vide una donna che sembrava la madre, si avvicinò alla bara e urlava, piangeva, chiedendole scusa. Ma era troppo tardi. Uscì dalla chiesa, prese il telefonino per controllare se c'erano chiamate. Ne fece una lui, non ce n'era nessuna. "Ciao John". La sua vita non era stata buttata nel cesso. |