Nick: Althusser Oggetto: Era bello quel sorriso... Data: 4/12/2004 12.59.7 Visite: 236
Mi girai e le chiesi a bruciapelo: - Tu scrivi mai? - No. Disse lei, con un’aria d’incredulità sul viso, rafforzata da un: - E poi cosa? Cosa dovrei scrivere? - Tutto. Le risposi di botto (anche allora pensavo che il ritmo fosse essenziale in una conversazione). - Tutto può essere scritto, continuai, in fondo si tratta solo di parole…. e della nostra vita…. E lasciai la frase sospesa nell’aria con una doppia pausa che mi sembrò il più bel replay nella storia delle parole. - Già però non scrivi. C’è gente che si dedica a farlo e tu no. Attaccò, nientaffatto intimidita, e la stoccata m’irrigidì. Inutile negare, ero sempre stato un accusone di merda. Ma mi piaceva pensare che non lo dessi a vedere. Che avevo un controllo perfetto sui tasti della mia facile ira. - Ti sei arrabbiato eh? Invece continuò lei. Il mio autocontrollo aveva bisogno di una messa a punto. Poi mi guardò in un modo che non riuscii a decifrare. Del resto era sempre così. A volte credevo: non capisco cosa pensa. Altre invece: capisco benissimo e quindi non è più il caso che ci vediamo. Oppure lei piangeva e io restavo impallato. Ma non perché fossi, oltre che un accusone, un insensibile di sfaccimma, solo perché a volte mi dava idea di un pianto telecomandato, che te ne stai lì sul divano di casa e te lo spari con un semplice click delle dita in stereodrome. Cioè – capite? – mi sembrava una cosa innaturale, esagerata e spettacolare e per questo al passo coi tempi, ma non con i limitati margini della mia sopportazione. Poi però dopo ci ripensavo. Lo facevo sempre e convenivo sul fatto che un pianto esprime sempre un dolore. Ok, ok, a volte anche una gioia, ma di quelle attese a lungo. Troppo. Che poi quando pure l’ottieni ti fa male, per tutto il tempo che te ne sei restato lì ad aspettarla. A finale era un dolore, ne ero convinto. Quindi, assodato che un pianto esprima un dolore, lei soffriva e io non volevo che accadesse. Perché poi non lo capivo. Me lo chiedevo spesso, eppure non ci arrivavo. Faceva parte dei miei misteri impenetrabili. Lo facevo perché ci tenevo. Si, ok, avevo detto ai 4 venti che l’amore non serviva a un cazzo. Si tu col dito alzato là in fondo, lo so che te lo ricordi, non c’è bisogno che fai il saputello, amico. Non sono qui per negarlo. Però lei era, come dire…dolce e poi ti comunicava l’idea stessa della bontà. Una sorta di modello perfetto da Iperuranio. Se la bontà si fosse potuta vendere sotto vetro come il duomo di Milano, che lo giri e viene giù la neve, avrebbe la sua faccia. Magari rovesciata ma pur sempre la sua faccia. Sarebbe andata molto d’accordo col me stesso di quando avevo 15 anni. Solo che quando io ne avevo 10 lei sarebbe nata l’anno dopo. Sono sempre stato più vecchio delle mie fidanzate, con lei più delle altre. - Ma no, che non mi sono arrabbiato. Ripresi il filo del discorso. - E’ solo che a volte sono cosi’ inquieto. Si vede eh, l’anima inquieta? Adoravo darmi delle arie. Lei mi rispose "si", ma era triste. Proveniva da un universo nel quale l’inquietudine era figlia della pazzia. Ma non quella pazzia dello scrivere "sono pazza" sulla pagina di una comunità virtuale. Quella dell’essere fuori di testa. Fuori come un satellite. Malato mentale. Nel suo universo la quiete era la condizione ideale, la virtù stava giusto nel mezzo e una bella giornata era ineludibilmente una giornata di sole. Punto. Non la biasimavo, del resto lei viveva nel suo tempo, ero io che inseguivo il mio. Mi chiedevo spesso se fossi io a sentirmi più giovane o se attiravo ragazze più mature per i loro anni. Preferivo tenere sospesa la risposta, a mezz’aria, come un pallone tra i piedi di Maradona che non vuole saperne per un cazzo di toccare terra. Però non era corretto dire che lei fosse così inquadrata, perché aveva anche voglia di vedere. Lo dovevo ammettere. Spesso mi sentivo in colpa, però. Sapete, quelle cose di portare sulla cattiva strada come se ne esistesse una buona che non fosse un altro nome per la monotonia e la piattezza. Quando pensavo ‘ste cose mi sentivo molto Bukowski, ed ero fiero di me, però a differenza dello zio Buk non facevo il passo. Vivevo costantemente fuori delle mura della morale comunemente accettata, tuttavia casa mia era proprio sul confine. "Borderline", dicevo con un’espressione anch’essa molto figa, come si diceva in Italia a quei tempi, dopo che l’accento milanese era diventato quello ufficiale dei dj e degli speaker televisivi. Espressioni come: "Tie sinti na vagnona muto fiGa", erano, per quanto raccapriccianti, all’ordine del giorno. - Vabbè dai andiamocene a guardare il mare d’inverno. Le dissi, tagliando corto, dopo un po’ mi cacavo il cazzo di fare l’anima in pena. E lei sorrise. Com’era bello quel sorriso.
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