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Nick: Viol4
Oggetto: ecco un pò
Data: 20/6/2003 20.12.47
Visite: 2

ecco un pò dell'iter della "privilegiata" Sivia Baraldini.
se avete voglia di passare lo stesso x un posto di lavoro, possibilmente quando siete già ammalati di tumore, accomodatevi pure.




Torniamo dunque al 9 novembre 1982. In quei primi anni '80 la morsa delle forze di polizia statunitensi si era stretta attorno agli attivisti del "Black Liberation Army" (un movimento di resistenza armata che lottava contro l'oppressione e le pessime condizioni di vita delle minoranze di colore negli Stati Uniti) e a quei movimenti che confluirono nel BLA (o che fiancheggiavano tale gruppo, tra cui l'organizzazione comunista "19 maggio" di cui faceva parte la Baraldini). L'arresto fu dunque per associazione sovversiva, e la Baraldini venne rilasciata poco tempo dopo, su cauzione.
Il processo a carico degli attivisti del BLA e delle altre associazioni terminò con una sentenza del luglio 1983. La pena complessiva a cui fu condannata Silvia fu di 43 anni. Cercherò di seguito di riassumerne le motivazioni usando il meno possibile termini tecnici, con qualche approssimazione di cui chiedo scusa da subito.
· 20 anni per associazione sovversiva. In questo caso fu esteso al caso della Baraldini la legge "Rico", in origine nata per reati ascrivibili al campo della criminalità organizzata mafiosa. In buona sostanza con questa legge i crimini commessi da un elemento di una data organizzazione venivano contestati a tutti i soggetti che componevano la stessa. Dunque la Baraldini pagò per reati contestati al gruppo "19 maggio", indipendentemente dalla personale estraneità ai fatti criminosi
· 20 anni per concorso in evasione. L'evasione fu quella di Assata Shakur, "l'anima" del BLA. L'evasione avvenne in modo totalmente incruento (2 guardie addette alla sorveglianza nel carcere di Clinton furono prese in ostaggio e liberate poco dopo l'evasione) il 2 novembre 1979.
· 3 anni per "ingiuria al Tribunale" (non so tradurre meglio la definizione originale "Contempt of Court"). In questo caso "l'oltraggio" di Silvia verso la Corte fu di rifiutare di fornire la propria testimonianza circa i nomi degli altri militanti nel movimento "19 maggio". A questo proposito ricordo che, dopo il primo arresto del novembre 1982, l'FBI offrì un'ingente somma di denaro alla Baraldini per denunciare i propri compagni. Questa offerta le fu rinnovata una volta in carcere; la contropartita non fu più una somma di denaro, ma la liberazione. Il rifiuto di collaborare fruttò a Silvia la qualifica di detenuta pericolosa, il trasferimento al carcere di Lexington e l'inasprimento delle sue condizioni detentive. In altre parole, la Baraldini avrebbe potuto mercanteggiare la propria libertà con un "pentitismo interessato", ma ha preferito un percorso di coerenza morale che le ha fruttato grandi sofferenze, ma che forse è stato l'elemento che più di ogni altro ha contribuito a cementare il vasto movimento d'opinione e di solidarietà formatosi negli anni attorno alla sua figura.
Avremo modo di tornare più avanti su questi 43 anni inflitti ad una persona che non si era macchiata di reati di sangue, e così pure avremo modo di riflettere su principi quali la proporzione tra crimine e punizione, il fine rieducativo della pena, eccetera, principi che dovrebbero essere basilari in uno stato di diritto. Ci torneremo più avanti perché ora è il momento di occuparci dell'odissea carceraria di Silvia
La Baraldini fu rinchiusa prima nel carcere di New York, poi in quello di Pleasanton (California) e poi, come ricordato in precedenza, a Lexington, dove fu sottoposta ad un regime carcerario particolarmente severo, disumano e degradante: isolamento, perquisizioni corporali, rigide censure nella posta e limitazioni nelle visite, costante monitoraggio della propria vita carceraria, anche nei momenti più intimi. Solo la dura lotta di Silvia e di altre carcerate produsse un leggero miglioramento in queste condizioni (e l'unità di massima sicurezza di Lexington venne in seguito chiusa, anche grazie all'intervento di Amnesty International).
Ma per Silvia la drammaticità delle condizioni di vita a Lexington fu peggiorata pure dalle condizioni di salute. Dopo aver lamentato continui dolori addominali le fu diagnosticato un tumore maligno (siamo a metà del 1988). Inutile dire che anche nelle cure mediche l'amministrazione penitenziaria statunitense non si dimostrò né efficace né comprensiva, tendendo anzi ad ostacolare, limitare o comunque differire le cure di cui Silvia abbisognava
Dopo gli interventi chirurgici Silvia Baraldini nel 1990 fu trasferita nel carcere di massima sicurezza di Marianna (Florida). Questo trasferimento fu solo l'ennesimo gesto di spregio da parte dell'Amministrazione Statunitense nei riguardi non solo della detenuta, ma pure del vasto movimento d'opinione che proprio in quegli anni s'era formato, non solo in Italia. Infatti il carcere di Marianna si trova in una località isolata che presenta non poche difficoltà a chi lo vuole raggiungere. In totale serve più di una giornata di viaggio da New York, e dunque è chiaro che (proprio quando in Italia andava intensificandosi - anche attraverso visite personali - l'interessamento verso il "caso Baraldini") gli USA abbiano inteso ostacolare - anche a livello logistico - questo movimento di opinione.
L'ultimo trasferimento carcerario, sempre negli anni '90, fu da Marianna a Danbury, nel Connecticut.
Solo alla fine degli anni '90 si riuscì a concretizzare il ritorno in Italia; nell'ambito dell'accordo con gli USA ai sensi della convenzione di Strasburgo è stato anche ridefinito il termine di fine pena nel 29 marzo 2008.
Come dicevo nella premessa, il ritorno di Silvia (avvenuto il 24 agosto 1999) da molti è stato salutato come una vittoria. Tutto giusto, per carità, si è trattato di un enorme passo avanti, ma non di una vittoria. Ancora una volta, infatti, l'Italia ha dovuto presentarsi come uno "Stato vassallo" degli USA per ottenere ciò che le era dovuto, accettando di sottostare a condizioni-capestro solo in nome del raggiungimento dell'obbiettivo principale. In altre parole per ottenere questo risultato si è dovuto partorire una sorta di mostro giuridico: un cittadino italiano può scontare nel proprio Paese la pena inflittagli in un altro Stato, senza poter sperare di usufruire di benefici, sconti di pena o altro previsti dall'ordinamento giuridico della propria Nazione. In buona sostanza anche oggi il caso di Silvia Baraldini, cittadina italiana, è sottratto alla nostra legislazione. Un compromesso, insomma, che è sembrato più una regalia che lo Stato Sovrano ha fatto al proprio Stato Vassallo (forse per ricompensarlo della fedeltà dimostrata in altre occasioni) piuttosto che il risultato di una transazione tra pari
Insomma, un atto di civiltà (sia umano che giuridico), per di più ottenuto tra mille difficoltà e colpevoli ritardi, è divenuto occasione di nuove e sterili polemiche. Anche questo dà la misura di quale sia la realtà attuale del dibattito politico nel nostro Paese.
E purtroppo devo aggiungere che con il ritorno a Roma le sofferenze di Silvia non sono finite, né è cambiato l'approccio delle "autorità" (ora italiane, prima statunitensi) nei suoi confronti: sembra che l'approccio "umano" al caso debba sempre abdicare a quello giuridico, e che vent'anni di tribolazioni da un carcere all'altro non bastino a fare uscire questo caso dalle maglie della burocrazia e dei cavilli tecnico-giuridici. Il tribunale di sorveglianza di Roma ha stabilito per Silvia gli arresti domiciliari nell'aprile 2001. Per tragica ironia del destino la madre della Baraldini, gravemente ammalata da tempo, era deceduta il 9 aprile 2001. Se in questo ritardo si debba vedere un altro segno del solito accanimento giuridico o se sia stato solo frutto di intoppi burocratici non è dato sapersi. Proprio quando era tornata in Italia, convinta di migliorare le proprie condizioni detentive, ma convinta pure che questo miglioramento le avrebbe consentito di stare accanto alla madre, Silvia ha dovuto subire quest'ultimo affronto; le due donne hanno vissute per mesi recluse in due distinti ospedali.



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