Nick: NEVERLAND Oggetto: re:x Franti (LEGGI) Data: 15/1/2004 23.34.46 Visite: 30
de La Casa Dalle Finestre Che Ridono ho il DVD celebrativo del venticinquesimo anniversario (restaurato interamente) gli altri sembrano introvabili anche in Divx ma dopo il successo de La Casa penso proprio che qualcuno ci stiano lavorando su dimenticavo appassionato del Jappo vedi un pò di recuperare qualcuno di questi anche sottotitolati in Inglese: Naked Blood (1995) di Hisayasu Sato "Particolare"...mmm...iniziamo dalle cose semplici. Un giovane genio, appena diciassettene (Eiji) esegue delle ricerche sulla secrezione dell’endorfina, riuscendo a sintetizzare una droga capace di mutare l’impulso del dolore e della sofferenza (inviato al cervello) in una sensazione di estremo piacere. Il sogno del ragazzo é quello di donare l’eterna felicità ai fruitori del MYSON (la droga viene così battezzata da Eiji), di rendere gioiosa anche la più disperata delle esistenze. Spinto da tale nobile proposito, somministra (a loro insaputa) la droga a tre ragazze e ne osserva furtivamente, munito di telecamera, gli effetti. L’esuberanza giovanile di Eiji sottovaluta un piccolo particolare: il dolore inteso dal ragazzo é puramente psicologico. Egli si basa sull’esperienza personale, essendo tormentato dalla sofferenza per la perdita del padre, ma i centri nervosi delle inconsapevoli "cavie"(alterati dalla droga), trasformano in piacere QUALSIASI forma di dolore...ed il dolore più frequente e banale é prprio quello fisico. Così nella quotidianità del focolare domestico, può accadere che ci si tagli un dito cucinando o che ci si faccia male cercando di infilare un orecchino. La sensazione di dolore...é trasformata in piacere, un irresistibile piacere...le ragazze non riescono più fare a meno di questa sensazione.... L’etichetta che distribuisce questo film in Europa (la tedesca -maledetti e benedetti teutonici - Japan Shock) lo presenta come uno dei film più estremi che siano mai stati girati e lo definisce uno "splatter-gore". Ma é solo uno spot pubblicitario, per attirare gli amanti dell’estremo (che pullulano in Germania). Dico questo non perché il film lesini sulle scene d’effetto (ne parlerò più avanti), ma perché "Naked Blood" é un film sperimentale, ricercato, raffinato...in cui la violenza (sono buono, ci sarebbero altri termini) é al completo servizio della narrazione, non viceversa, come accade abitualmente nei "veri" splatter-gore. Sato si ritrova tra le mani un soggetto originale, che presenta una caratteristica unica: é plasmabile. Da un punto di vista estetico "Naked Blood" ricorda la psichedelia degli anni ‘70. Il film é quasi totalmente muto, pochissimi e sintetici i dialoghi, la colonna sonora di stile "ambient", l’atmosfera che regna per tutta la sua durata é rassicurante, la lentezza delle immagini inquietante. La cosa che più colpisce é il contrasto delle immagini. Si passa dall’inquadratura di un deserto in cui spicca un solitario cactus, al primissimo piano di una ragazza che si perfora il braccio con un punteruolo. Il tutto con un feroce stacco...senza passaggi intermedi, senza cambio di base misicale, senza mutare lo stile delle riprese., camera fissa a seguire in tempo reale le torture..mantenendo la pacata atmosfera della pellicola anche quando, una colonna sonora rock ed un montaggio frenetico avrebbero dato risultati migliori. Ma Sato non vuole questo, il regista non racconta solo una storia, il suo é più un tentativo artistico (abbastanza riuscito), un pò presuntuoso, ma apprezzabile. Inserti che sembrano provenire da "Easy rider", immagini digitali che si sovrappongono a paesaggi naturali, filmini amatoriali che una volta finiti continuano nella mente di chi sta guardando. Filosofia e denuncia sociale. Questo é Naked Blood. Il concetto filosofico: la felicità eterna, la ricerca di "qualcosa" che possa dare un senso all’esistenza. La denuncia sociale: il deteriore concetto dell’apparire, l’eccessivo e insaziabile consumismo che si ritorce contro la mediocrità di chi possiede questi valori. Questa mia breve analisi sembrerebbe dipingere questo film come una sintesi sopsesa tra surrealismo e psichedelia, in effetti lo é, ma...c’é un ma! Mi sento in dovere di lanciare un monito. Se vi venisse in mente di vedere questo film, tenete presente che le scene di violenza...varcano il limite di ogni vostra possibile immaginazione. Estreme, davvero insostenibili...stomachevoli. Su tutte la sequenza dell’auto-cannibalismo, che ha quasi nauseato un Demone, avvezzo a questo genere di pellicole. Tento di descriverla. Una delle tre ragazze ha la passione per il cibo, la droga esaspera questa sua voglia, spingendola a trarre piacere dallo staccarsi dei pezzi di carne e cibarsene. La scena più o meno é questa: la ragazza, nuda, é seduta sul tavolo della cucina, stringe tra le mani coltello e forchetta. La macchina da presa inquadra la ragazza a figura intera di profilo, le mani scompaiono tra le gambe, il suo capo é reclinato indietro ed emette dei mugulii di piacere. Dopo qualche secondo la forchetta si solleva e si dirige verso la bocca, brandendo un pezzo della vagina della donna. Dopo aver assaporato il proprio sesso, la ragazza si adopera per staccarsi un capezzolo, gustata quest’altra prelibatezza...osserva le posate insanguinate, le porta ad altezza del viso, parallele tra loro. Soggettiva. Sulla lama del coltello, coperto dal rosso fluido vitale, si riflette parte del suo volto (la ripresa é davvero bella), l’occhio sinistro, la donna sorride, la forchetta si lancia sull’organo della vista, estirpandolo ferocemente...dopo averlo ammirato soddisfatta (con il solo occhio che le rimane), lo divora! La scena in sé, non é più disgustante di altre presenti in molti film "gore", la cosa che la rende davvero insostenibile é che questo non é un film di quel genere. Il film é "serio", stilisticamente bello da vedere. Sono proprio la naturalezza e la lentezza di queste sequenze a renderle "inguardabili". Insomma io vi ho avvisati... Tra l’altro il film presenta al suo interno anche un piccolo thriller, un’assassino da scoprire, un amore da ricongiungere, un sogno da realizzare, simbologie esasperate. Un film di qualità, che ha il grande pregio di durare poco più di 70 min, contenendo i tempi delle riprese e non facendo così pesare allo spettatore la sua evidente lentezza. Da vedere. Unica nota negativa sono gli attori, forse la quasi totale mancanza di dialoghi, esaspera le loro capacità di recitazione. Eccezion fatta per la bella Misa Aika (la protagonista), il resto del cast si mantiene su livelli di decenza espressiva, senza brillare particolarmente. Ultima nota. In questo film, pur essendo presenti scene ferocissime...nessuno urla, la pacifica atmosfera costruita da Sato rimane integra per tutta la durata del film. In Naked Blood non si urla di dolore, si geme di piacere... AUDITION (1999) di Takeshi Miike Il film é finito! Mentre scorrono i titoli di coda, una sola considerazione mi riempie la mente: come é possibile che un regista, in due ore di film, riesca a proporre allo spettatore una serie interminabile di inquadrature, senza risultare mai banale o prevedibile? Takeshi Miike ci riesce...ci riesce in modo naturale, nulla sembra costruito o studiato a tavolino. La macchina da presa si muove fluida, traballa, rimane immobile...autonomamente, sembra davvero che sia lei a decidere cosa e come inquadrare. Soggettive improponibili, campi lunghi eccessivamente distanti, come se fossero immagini "rubate", primi piani che entrano dentro i personaggi, attraversandoli da parte a parte. Montaggio onirico e mai confuso, tenuto insieme da una bellissima colonna sonora. Signori, questo é Cinema, quello con la "C" maiuscola. E non parlo di regie pulite, confezionate "ad hoc" per un target ben preciso di spettatori. Parlo di regie fatte di immagini, quelle che riescono a far dimenticare anche la storia, che la mettono "involontariamente" in secondo piano, proprio quelle regie che imprimono a fuoco nel cervello i fotogrammi...uno dopo l’altro. Se dovessi fare un paragone (improponibile, perché Miike é unico), potrei affermare, senza risultare blasfemo, che un’accostamento stilistico con David Lynch non farebbe certo sfigurare questa pellicola giapponese. Non riesco proprio a capire! Perché questi film non vengono distribuiti da noi? Forse perché ormai siamo pressoché lobotomizzati da un tipo di cinema che ci propone da anni sempre lo stesso prodotto. Regie piatte, stili che sono tutti uguali...se non ci si chiama Raimi, Cronenberg, Lynch...distinguere un film da’altro é davvero impossibile! Per cui, lode al giappone...ma non solo, lode anche ai tedeschi, perché é grazie a loro se possiamo comprare in dvd le versioni "uncut" e sottotitolate in inglese, di questi film. Ma parmliamo del film. Audition é una storia d’amore. Travolgente, intensa...marcia. Mi sembra piuttosto "inutile" raccontare la trama, anche perché, in effetti, é meno originale di quanto si possa pensare. Asami (la bellissima protagonista) ha avuto un’infanzia fatta di abusi e violenze, nonostante questo, i suoi modi sono estremamente gentili, sussurrati...riesce a far innamorare chiunque con la sua dolcezza. Il suo desiderio é semplice, quanto umano...lei vuole amore. Dona il suo amore totale, chiedendo in cambio "solo" di essere amata. La sua vita prosegue nella disperata ricerca di questo amore, attraverso gli uomini che incontra. La sua richiesta, implorata, all’uomo che lei crede essere quello giusto...é straziante, quasi una supplica. Distesa nuda sul letto prega Aoyama (l’uomo che ama) di amarla: "Love me, please. Love me...only me...please". Se conoscessi il giapponese lo trascriverei in lingua originale, perché la voce di Eihi Shiina (che interpreta Asami) mette i brividi. Ma quell’implorato "only me" ha davvero un valore assoluto. Non é prevista nessuna altra forma d’amore per nessun’altra creatura vivente...altrimenti Asami potrebbe sentirsi tradita...e vendicarsi. Dopo quella notte di passione, la ragazza scompare. Aoyama, perduto nell’amore per Asami, la cerca, ripercorrendo quelle poche tappe del passato della ragazza che conosce. Scoprendo particolari inquietanti. La mezzora finale é un vortice di tensione, orrore, dolore, ma soprattutto amore. L’amore inteso come possesso totale di una persona, e nel caso in cui questo amore non sia integro...é giusto che anche la persona amata non sia integra. Se non si possiede tutto l’amore, non si deve possedere neanche la persona amata nella sua "totalità". Questa la semplice logica di Asami...racchiusa in un sacco di tela immobile sul pavimento di casa sua! Sogno, realtà, incubo, ancora realtà...ben peggiore dell’incubo. Una tecnica sopraffina, attori in stato di grazia, una fotografia che imprime alle immagini una forza surreale. Ho già voglia di rivederlo, ma senza sottotitoli stavolta, per poter gustare solo la bellezza delle immagini. Un desiderio mi invade...recuperare la filmografia completa di questo regista: Takeshi Miike, il poeta del dolore! Miike lancia un messaggio...non può esistere amore...senza dolore. Come dargli torto. Versus (2000) di Ryuhei Kitamura Prendete uno stagionato film di Bruce Lee, aggiungete 3/4 di Matrix, una manciata di Mission Impossible, un pizzico di Tarantino, un velo di Highlander, zombies di Romero quanto basta, la sempre verde lotta tra bene e male, un frizzante "dark hero", amalgamate con della fresca ironia nipponica ed innaffiate il tutto con ettolitri di sangue...otterrete "Versus": 2 ore di sano divertimento. Il film inizia con schermo nero e scritte in giapponese che recitano così: "Nel nostro mondo esistono 666 portali, nascosti e sconosciuti agli esseri umani, che collegano il nostro mondo ad un’altra dimensione. Da qualche parte in Giappone esiste il portale 444, la foresta della resurrezione". La trama é tutta qui, due "guerrieri", che incarnano le forze del male e del bene si danno appuntamento ogni secolo per cercare di aprire questa porta seguendo un rituale. La storia certo non brilla per originalità, ma riesce a reggere i 118 minuti di pellicola senza mai stentare, grazie ad un’ottima sceneggiatura (scritta dallo stesso regista), mai prevedibile e demenziale al punto giusto. Ryuhei Kitamura (un promettente trentenne) sforna come sua opera prima un piccolo capolavoro. La mezzora iniziale é da incorniciare...ritmo indiavolato, montaggio da videoclip "d’autore", colonna sonora rock...insomma un "noir" sostenuto dalla verve degna del miglior John Woo. Il film improvvisamente cambia...La foresta della resurrezione, stimolata, dalla presenza delle forze del male, sprigiona la sua energia, rianimando i morti...caso vuole che il terreno di questo bosco sia il cimitero della yakuza. Horror, di quello buono...gli zombi non hanno le caratteristiche romeriane, non mangiano i vivi, bensì gli sparano...he si! Avete capito bene, i defunti sono dei gangster che risorgono dai rispettivi loculi armati fino ai denti, intraprendendo divertenti e convulse sparatorie. Davvero ottimo! La steady-cam segue a velocità vertiginosa le evoluzioni dei protagonisti, impegnati in una serie infinita di combattimenti, per poi bloccarsi in improvvisi e lunghissimi rallenty. Lo stile di questi combattimenti ricorda molto i manga giapponesi , come Ken il guerriero e Berserk. La padronanza tecnica di Kitamura é impressionante, 2 ore di film girato esclusivamente in esterni, sempre con la stessa scenografia naturale (la foresta), con solo una decina di attori (tutti eccezionali)...una vicenda raccontata in tempo reale, cioé la durata del film (eccezion fatta per un breve prologo medioevale ed un epilogo post-atomico). Nonostante ciò Kitamura riesce ad incollare lo spettatore alla poltrona (al tappeto nel mio caso), senza essere noioso o pedante...i toni epici sono spesso smorzati dalle gags dei protagonisti (ci sono personaggi davvero assurdi). Il combattimento finale tra bene e male, con le classiche spade da samurai, dura circa 20 minuti... e si gusta per tutta la sua durata. Gli effetti speciali (non digitali) sono davvero notevoli...un film di "qualità". Unica nota negativa che mi sento di apostrofare a questa pellicola é forse lo stile piuttosto ripetitivo dei combattimenti... considerando però, che Versus é il suo primo film, mi sento di concedere questa licenza a Kitamura. Il film ha vinto nel 2001 il premio come miglior regia al Fantafestival, tra gli applausi e gli schiamazzi di un pubblico in delirio (tra cui il sottoscritto), che ha salutato Versus come il "salvatore" di quell’edizione dell’appuntamento romano. E’ uscito da poco il secondo film di Kitamura, "Alive"...spero il regista giapponese sia riuscito a mantenere le attese che Versus ha inevitabilmente delineato. Down to Hell (1996) di Ryuhei Kitamura Premessa fondamentale: non è un film! 1996, il buon Kitamura (aitante 27enne) procura una cinepresa super8, convoca 5 amici e con la scusa di fare una passeggiata tra i boschi nipponici, ne approfitta per girare questo medio-metraggio di 45 minuti. Osservando le prime sequenze di Down to hell, esclamo tra me e me: "He he he, questo giapponesino non spreca il suo tempo per nascondere la propria passione per Raimi". In effetti il cammino iniziale dei due presenta parecchi punti in comune. In primo luogo la predisposizione per le locations forestali, poi la realizzazione di un "esperimento" antecedente il tuffo in quel profondo e (a volte) oscuro oceano cinematografico, identificato con le riprese di un vero film, infine l’amore e la naturale tendenza per la violenza ed il sangue, preferendo l’uso (anche per motivi economici) di effetti non-digitali. Raimi nel 1978 girò "Within the Woods" una vera e propria prova generale, impropriamente additata come prequel, di quel capolavoro che, 4 anni dopo, verrà presentato con il titolo di "Evil Dead". Si verificano i movimenti di macchina, le soggettive, le riprese in esterni, alcuni degli effetti speciali "fatti in casa", se ne saggia l’efficacia, si ipotizzano le probabili conseguenze (per alcuni irreversibili) delle scene nelle menti degli spettatori…ma soprattutto ci si diverte…facendo cinema. Raimi fece questo, Kitamura (lungi da me ogni minimo paragone) ricalca, 15 anni dopo e neanche tanto velatamente, le orme del regista del Michigan. Un gruppo di 4 ragazzi ha come "simpatico" hobby, quello di rapire dei coetanei, portarli in un bosco isolato e dar loro la caccia con lo scopo di ucciderli…durante una battuta di caccia, però la preda…decide di vendicarsi…dopo essere stata uccisa. Storia lineare, essenziale, niente spiegazioni o delucidazioni varie. Ciò che accade, accade solo perché deve accadere. La sceneggiatura è un flebile pretesto per sciogliere alcuni dubbi sul montaggio di determinate sequenze, per testare la validità del connubio musica-immagini, per determinare la quantità di sangue che deve zampillare da una ferita, senza risultare eccessivamente comica. Questo corto, in fin dei conti, è tutto qua. Carenza di mezzi, effetti artigianali, recitazione precaria…ma indispensabile per indicare una direzione al regista giapponese. Le basi tecniche ci sono, le idee anche. Idee che verranno rielaborate e utilizzate per il suo primo "vero" film e cioè quel piccolo capolavoro di action-horror che è "versus" (conosciuto, infatti, anche come "down to hell 2") di cui parlai a suo tempo. Le citazioni sono evidenti, dalle riprese del bosco alla Raimi, all’estetica degli zombi di natura Fulciana (i giapponesi lo amano) fino allo stile action di John Woo. Un finale negativo e privo di speranza, incornicia questo esercizio di stile senza pretese. In sintesi, un prodotto divertente, rapido, essenziale e godibile…naturalmente se siete pervertiti e depravati, come il sottoscritto, ed amate un certo genere di cinema. Biozombie (Hong Kong 1998) di Wilson Yip Anche se questo spazio nasce in origine come contenitore atto a raccogliere esclusivamente pellicole del sol levante…mi permetto di fare una piccola digressione per un film degno di nota e, comunque, di ubicazione geografica limitrofa (Hong Kong). Wilson Yip, dopo alcune prove (quattro per l’esattezza) salutate da timidi consensi e limitate esclusivamente al circuito di distribuzione cinese, risveglia l’attenzione degli spettatori locali (ed in seguito internazionali) confezionando un delizioso ed apparentemente "frivolo" crogiuolo di idee, che segnerà la svolta della sua carriera. "Sang dut sau shu" (questo è il titolo originale di "Biozombie"), ha la struttura narrativa ed estetica di un perfetto B-movie (moderno), ma nasconde (più o meno velatamente) aspetti di ben altro interesse. La storia in due righe. Gli scienziati iracheni hanno creato una micidiale arma (biochimica) di distruzione di massa (forse quella di cui è ancora alla ricerca Bush), il governo cinese acquista un campione di tale prodigioso liquido, custodito in una bottiglietta, che normalmente ospiterebbe un aperitivo analcolico. Per una sfortunata serie di coincidenze, questo preziosissimo campione cade nelle mani di due bulletti di periferia che lavorano in un centro commerciale… inizia il contagio… Il budget di questo film è davvero irrisorio, tanto che il make-up degli zombi, può essere additato (senza dubbi) come il peggiore che si sia mai visto su grande schermo. L’umorismo è (per buona parte del film) il vero protagonista della storia, che tra l’altro non brilla certo per innovazione. Ma allora, vi starete chiedendo, perché questo film sarebbe degno di nota? Iniziamo dalle cose più evidenti. Girato per buona parte in interni, con uno stile sobrio ma elastico, è supportato ed arricchito da brillanti intuizioni visive che ne adombrano le carenze scenografiche. La forza di un perfetto commento musicale ed il sostegno di una recitazione convincente, mai incerta, riescono a sopperire i limiti economici imposti dalla produzione. Yip deve molto a Romero, tanto che il suo film, risulta una vera e propria citazione dell’intera trilogia del regista newyorkese, ma attenzione, non siamo di fronte ad un "furto" di idee, bensì ad una rielaborazione ed un riadattamento socio-politico delle tematiche romeriane…e proprio questo rappresenta l’aspetto più interessante di "Biozombie". Il gruppo di protagonisti ha una connotazione sociale ben identificata, le loro vite si districano tra i corridoi di un centro commerciale, in cui essi lavorano, mangiano, comprano, vendono, gestiscono le relazioni sociali, espletano le proprie funzioni fisiologiche, centro commerciale che diventerà la loro prigione dopo l’esplosione dell’epidemia e dopo che le porte d’ingresso verranno chiuse, proprio come in "Dawn of the dead". Per difendersi dagli attacchi degli zombi si rifugiano all’interno di uno shop, dove due uomini si scontreranno sulla possibilità di rimanere barricati ed attendere gli aiuti o di uscire fuori e rischiare invece che attendere una morte certa, proprio come in "Night of the living dead". L’incapacità e l’ottusità delle forze dell’ordine sottolineano l’antimilitarismo (rimarcato anche dal fatto che uno degli "acquirenti" del terribile siero, sia un militare), e la presenza di uno zombi "raziocinante" che cerca di difendere la persona che ama…ricordano inevitabilmente "Day of the dead". Il clima del film, fino ad un certo punto, è del tutto spensierato, strafottente, incurante delle conseguenze, prepotente ed in apparenza insensibile…come presumibilmente lo è il carattere del giovane medio di Hong Kong, ma Yip a differenza delle sceneggiature di questo genere di pellicole (mi viene in mente Junk), cerca di curare quanto più è possibile la storia. Infatti in biozombie non ci sono lacune narrative, tutto ciò che accade ha un perché, nulla viene lasciato al caso. Il profilo psicologico dei protagonisti si costruisce con lo scorrere della pellicola, mattone su mattone, tanto che possiamo avere una visione totale della personalità dei protagonisti, solo dopo che la parola fine sia apparsa sullo schermo. Credo che raramente, Romero escluso, un film incentrato sul tema dei ritornanti antropofagi, dia una tale importanza alla profondità dei personaggi, analizzando i vari aspetti della vita sociale: come si appare agli occhi degli altri, come si vorrebbe essere, ma soprattutto come si è realmente. Il film è per lunga parte divertente, con tratti di assoluta comicità e questo aspetto entra in violento contrasto con la drammaticità che si sviluppa intorno al finale. Tuttavia tale dicotomia non crea affatto un netto contrasto o un’incongruenza, il tutto viene sfumato da una sorta di dissolvenza emozionale, capace di spostare i toni della vicenda dal comico al drammatico senza creare scompensi o bruschi sobbalzi narrativi. Yip riporta nel suo film anche il nichilismo e la vena pessimistica di Romero, dandone una sua personale interpretazione e risultando, per certi versi, ancora più cupo del suo collega d’oltreoceano. Tra le tante invenzioni visive, ne segnalo due in particolare: - la soggettiva in negativo monocromatico, e grandangolare, degli zombi. - l’introduzione in alcune sequenze di elementi "fisici" (beep, indicazioni scritte, simboli) tipici dei videogames. Una volta tanto gli zombi non sono solo un pretesto per mostrare sangue e interiora (cosa per nulla deprecabile, anzi), ma un modo per puntare un riflettore su una delle tante forme in cui la società che ci circonda può manifestarsi.
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