Nick: testoster Oggetto: re:milioni di morti neilager Data: 23/10/2003 19.35.53 Visite: 26
Andiamo, io e Franco Volpi a trovare Hans Georg Gadamer a Ziegelhausen, un sobborgo di Heidelberg dove il filosofo abita. L'appuntamento è per le prime ore del pomeriggio. Pioggia, silenzio e verde abbracciano questa piccola altura residenziale da cui è possibile scorgere una parte del fiume Neckar che fa da cinta alla piccola cittadina sede di una prestigiosa università. Gadamer ci accoglie sulla porta di casa. La figura imponente è sorretta da due bastoni che le mani del filosofo strangolano alle estremità: "Come vedete le mie gambe non mi reggono quasi più, ormai faccio fatica a viaggiare. Ma riesco ancora a ricevere ospiti e a lavorare molto bene. Gradite del vino? Adoro i vini italiani. Ricordo che al matrimonio di Vittorio Mathieu, una cerimonia sontuosa, bevemmo un barolo straordinario". Con una certa fatica Gadamer ci guida nella stanzetta dove normalmente lavora. Tra i libri, le carte, gli appunti, mescolati in un piacevole disordine, campeggia una bottiglia di eccellente Montepulciano che il filosofo, ormai seduto nella sua poltrona, stappa con allegria. Tra qualche mese compirà cent'anni. E' l'occasione per un brindisi anticipato. Professor Gadamer lei è nato nel 1900, all'alba di un secolo di cui assistiamo al finale e che lei, come rarissimi altri, ha attraversato per intero. Il suo cammino intellettuale si intreccia con la storia della cultura tedesca ed europea nel Novecento. L'ampio racconto della sua vita che Jean Grondin ha pubblicato in tempo per il centenario (Hans Georg Gadamer, Eine Biographie, Mohr, pagg. XII-437) è in effetti uno spaccato sulla filosofia del nostro secolo... "Un lavoro preciso e ben documentato, di tutto rispetto, ma pieno di indiscrezioni che avrei preferito non vedere stampate. Ahimè, io stesso ho avuto l'imprudenza di raccontargliele...". Lei è stato fianco a fianco con tutti i grandi personaggi del pensiero tedesco di questo secolo, Husserl, Scheler, Hartmann, Heidegger e tanti altri; già l'elenco è impressionante. Poi con l'ermeneutica lei ha profondamente influenzato la filosofia mondiale di questi ultimi decenni. Ma come avvenne la sua scelta per la filosofia? "Che la filosofia sarebbe stata il mio cammino lo capii solo relativamente tardi, a Marburgo. Negli anni della mia prima giovinezza, che trascorsi per intero a Breslavia dove mio padre lavorava come chimico in campo farmaceutico, mi piaceva soprattutto la letteratura: Shakespeare, i classici greci e tedeschi, in particolare la lirica. Ma non avevo ancora letto né Schopenhauer né Nietzsche, due autori quasi di culto all'epoca, anche se rifiutati dalla filosofia universitaria". Di Breslau era anche Edith Stein, l'ha conosciuta? "No, personalmente non l'ho mai incontrata. Ma mia moglie la conosceva bene, ed erano state nella stessa scuola. A Friburgo, dove lei divenne assistente di Husserl, io andai solo nel semestre estivo del 1923 per ascoltare Heidegger". Che cosa ricorda in particolare di quei primi anni del secolo? "L'evento che più mi impressionò, anche perché rammento ancora le lunghe conversazioni a tavola con mio padre, fu - più che la guerra nei Balcani - il naufragio del Titanic. Per capire veramente che cosa abbia significato quella catastrofe bisognerebbe avere la mia età. Ricordo che era l'argomento del giorno, tutti ne parlavano e anche in circoli intellettuali si ragionava a interpretarlo. Era il primo segnale, la prima avvisaglia che il progresso non avrebbe portato solo rose ma anche spine e dolori. Era l'inizio di uno scetticismo che aprì una crepa nell'incondizionata fiducia che allora si nutriva nei confronti della scienza e della tecnica. Una fiducia che in Germania si combinava con lo spirito prussiano e le sue tipiche virtù: l'ordine, il lavoro, l'organizzazione, la disciplina. Si apriva allora una crepa non solo nell'ottimismo del progresso tipico dell'età del positivismo, ma anche nella visione del mondo su cui si era basata la mia educazione. Cominciò così il distacco dall'ambiente di casa mia". Quali esperienze culturali maturarono questo distacco? "A farmi balenare davanti agli occhi un'alternativa al mondo che mi stava scivolando alle spalle e ai valori che esso celebrava fu il libro L'Europa e l'Asia di Theodor Lessing, un singolare outsider, che sviluppava una critica della nostra civiltà occidentale. Una visione alternativa del mondo era per me anche quella rappresentata da Stefan George e dal suo Circolo, un'esperienza che fu decisiva per la mia formazione. E poi un libro per me grandioso e straordinario fu le Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann. Cominciai a capire e apprezzare allora l'importanza dei valori spirituali della Kultur umanistica rispetto a quelli materiali della moderna Zivilisation. In quegli anni mio padre fu trasferito a Marburgo, dove presi poi decisamente la strada della filosofia, influenzato dapprima dal neokantismo, specialmente da Paul Natorp e da Nicolai Hartmann, che colà insegnavano. Imparai molto anche dall'antichista Paul Friedlander e da Ernst Robert Curtius. E poi il teologo Bultmann, di cui divenni amico. Ma decisivo fu l'incontro con Heidegger, e il sodalizio che si formò tra noi, suoi allievi, benché fossimo ormai già alle prime esperienze di insegnamento: Löwith, Gerhard Kruger e me". Che impressione le fece Heidegger? "Nell'estate del 1923 andai a Friburgo per ascoltare le sue lezioni. I nostri compagni di Marburgo che c'erano andati tornavano incantati dalla magia delle sue lezioni, raccontavano di un modo completamente nuovo, coinvolgente, di far parlare i testi della tradizione. Si aveva la sensazione che un nuovo astro stesse nascendo nel firmamento della filosofia tedesca. Anch'io ne rimasi impressionato. Tuttavia all'inizio, quando nel 1923 seguii per la prima volta i suoi seminari, ebbi con lui un rapporto tutto sommato accademico, da allievo a maestro. Approfondii con lui soprattutto lo studio di Aristotele. Quando venne a Marburgo, entrai invece con lui in rapporto molto più intenso, posso dire confidenziale e familiare. Fu tra l'altro padrino di mia figlia quando fu battezzata". Se si scorre la lista dei partecipanti ai seminari tenuti da Heidegger in quegli anni, vi si trova buona parte dei nomi che hanno segnato la filosofia tedesca contemporanea... "Certo, c'erano Marcuse, Horkheimer, Joachim Ritter, Hans Jonas. Anche Leo Strauss venne una volta a sentirlo, sia pure solo di passaggio, quando Heidegger commentò il primo libro della Metafisica di Aristotele: fu un'impressione indimenticabile, che rievocò quando ci rivedemmo a Parigi nel 1933. Heidegger a lezione era semplicemente fenomenale: sbrigliava la sua straordinaria immaginazione filosofica e la sua inarrivabile capacità di penetrare i testi. Non ho più visto un talento filosofico del genere". Quale influenza ebbe su Heidegger - al di fuori della filosofia - l'atmosfera culturale di allora, caratterizzata da personaggi come Max Weber o da un movimento di idee come quello intorno al Circolo di George? "Straordinaria, molto più profonda di quanto comunemente si supponga. Ci sentivamo attratti dal Circolo di George. Heidegger se ne era interessato negli anni giovanili, prima che ci conoscessimo. La mia passione per la poesia di George arrivò un po' più tardi. Ma fu questa esperienza a creare fra noi un legame più profondo. Lo stesso vale per Max Weber. Heidegger aveva seguito con attenzione la sua vicenda intellettuale, considerava lo studioso con grande rispetto e ammirazione, anche se scorgeva nei suoi modi un'inclinazione troppo mondana, mentre lui rimaneva attaccato al suo modo di vivere contadino. E poi Weber incarnava la potenza di una Germania che era lontana dalla riflessione filosofica di Heidegger". Professor Gadamer lei parla un buon italiano, adora i vini italiani e ama la nostra cultura. Con tutto questo mostra di avere un rapporto speciale. Ci può raccontare come nacque? "Fu grazie a Löwith, mio compagno di studi e amico, alla scuola di Heidegger. Fu lui con la sua insistenza a convincermi a seguire i corsi del lettore di italiano a Marburgo, un certo dottor Turazza, che ebbi occasione di rivedere, anni più tardi, a Bologna, a una mostra di Morandi. Quelle lezioni di lingua e letteratura italiana furono il mio primo approccio, ma mi furono di grande aiuto. E poi, stando vicino a Löwith, era impossibile non venir contagiati dalla sua passione per l'Italia". +L'associazione di Löwith e l'Italia evoca anche alcuni episodi amari. Per esempio quando nel 1936 Heidegger venne a Roma per tenere la celebre conferenza su Hölderlin e la poesia... "Allora io conoscevo ancora poco dell'Italia. Dopo la prima guerra mondiale e dopo la crisi del 1929 per noi era diventato quasi impossibile viaggiare. Ma ero in corrispondenza epistolare con Löwith, che ci scriveva spesso. Era soprattutto mia moglie che teneva i contatti con lui, scambiando lunghe lettere in cui lui ci raccontava della sua vita in Italia, dove usufruiva di una borsa di studio. Löwith mi ha raccontato di persona di quell'incontro con Heidegger. Fu il principio del suo distacco dal maestro e dall'amico di un tempo". Tra i due c'era stato un rapporto personale intenso... "Penso che l'amicizia tra Heidegger e Löwith possa essere comparata per intensità a quella che Heidegger ebbe con Jaspers. Ciò che li legava era l'opposizione contro l'accademismo della filosofia dell'epoca. Specialmente Heidegger, che era di origini umili e veniva dal mondo contadino, aborriva letteralmente il formalismo dei comportamenti accademici e tutto ciò che sapeva di compromesso: gli inevitabili accorgimenti diplomatici necessari alla convivenza universitaria erano per lui intrisi di inautenticità, di falsità". Il che non gli impedì di accettare il ruolo di Rettore... "Rispetto a questa sua intransigenza morale di fondo, che mantenne con rigore dall'inizio alla fine, il fatto che nel 1933 abbia accettato la carica di rettore è semplicemente un'assurdità, un nonsenso. La sua speranza di promuovere un rinnovamento dell'università cavalcando il movimento nazionalsocialista fu poi un'incredibile e inimmaginabile ingenuità, tanto più per uno come lui, privo di qualsiasi nozione di che cos'è e di come funzioni un apparato burocratico. Ricordo che quando entrò in carica, dopo poche settimane tutta l'amministrazione universitaria rimase bloccata perché lui, scrupoloso e preciso com'era, pretendeva di vedere e controllare di persona ogni cosa che firmava. Cosa che provocò la paralisi amministrativa. Tipico di Heidegger!". Torneremmo alla rottura con Löwith. Come avvenne? "In realtà già da tempo si era capito che le cose stavano scivolando verso una china fatale, e che per Löwith, di origine ebraica, non ci sarebbe stata alcuna chance di restare nell'università tedesca. Heidegger fece tutto quello che poteva per aiutarlo. Ma non era un cuor di leone né avrebbe potuto ottenere nulla dai nazisti. Il suo destino era segnato fin dall'inizio. Ma ciò che incrinò la loro amicizia fu che, in questa situazione, quando Heidegger venne a Roma e, il giorno dopo la sua conferenza pubblica, si incontrarono privatamente, non ebbe la sensibilità di togliersi il distintivo del partito che portava all'occhiello. Era per Löwith una provocazione. E fu la rottura". E lei come reagì alla scelta politica di Heidegger? "Il mio caso era ovviamente molto diverso, ma reagii in modo opposto. Anch'io fui colpito dalla scelta di Heidegger. Ma vidi manifestarsi in essa la debolezza e la pavidità dell'uomo di fronte alla situazione fatale. Una cosa comunque va detta: Heidegger era certamente un carattere pavido, ma dire che fosse antisemita è un'immane sciocchezza". Lei ha svolto un grande ruolo nel pensiero tedesco del dopoguerra. Ha mediato tra la Scuola heideggeriana e la Scuola di Francoforte. Poi, con l'ermeneutica filosofica, ha gettato un ponte tra la discussione filosofica europea e quella americana... "La mediazione più difficile e delicata fu quella con i Francofortesi, specialmente con Adorno. Ma io avevo mantenuto sul piano filosofico una certa distanza da Heidegger, non avevo fatti miei tutti i suoi punti di vista. Grazie al mio radicamento nella tradizione dell'antichistica e degli studi umanistici avevo conservato un rapporto meno radicale, meno selvaggio, con il mondo". A questo proposito Habermas ha detto che lei avrebbe "urbanizzato la provincia heideggeriana". Lo considera un complimento? "Ritengo di sì, anche perché con lui ho costruito nel tempo un rapporto amichevole, malgrado le nostre concezioni filosofiche e politiche siano assai diverse. Agli inizi il mio appoggio fu determinante per la sua carriera. Solo a fatica vinsi la resistenza di Löwith, che gli era contrario. Io sostenevo invece che ci voleva proprio uno come lui, che la pensava diversamente da noi, ma che era disponibile al dialogo. Cosa che con Adorno era invece piuttosto difficile". +Ha conosciuto anche Marcuse? "Certo, per la sua schiettezza che rasentava l'ingenuità, è forse tra i Francofortesi della vecchia generazione quello che ho maggiormente apprezzato. Non era intransigente come Adorno, ma duttile, aperto, comprensivo. Con lui si poteva discutere e dialogare molto bene. Non aveva quel fanatismo e quella faziosità che contraddistinguevano Adorno". +Come visse gli anni della protesta studentesca Lei che era considerato un'eminenza grigia della conservazione? "A differenza di molti altri ordinari, pensate allo stesso Adorno, che ebbero infiniti problemi e che entrarono in crisi insieme al modello di università che rappresentavano, io non ebbi alcuna difficoltà con gli studenti e attraversai indenne quella fase. Del resto si trattava di comprendere le esigenze di rinnovamento veicolate dalla protesta studentesca e di mediare, non di opporre loro un atteggiamento oltranzista". Lei è famoso per questa sua capacità di dialogare. E in ciò ci appare agli antipodi di un personaggio altrettanto grande che è stato Carl Schmitt. Lo ha conosciuto? "Certo, ma non ebbi con lui un rapporto facile. E a me, come protestante, il mondo dei suoi pensieri appare in qualche modo lontano, estraneo. Io lessi subito il suo libro sul romanticismo politico, in particolare la parte su Schlegel mi impressionò. Forse è vero che oltre che giurista egli fu anche un teologo politico. Senza il suo radicamento nella visione cattolica della storia universale non si capiscono i suoi concetti. Ma il contatto personale con lui per me fu difficile. Molte volte mi ha irritato con il suo atteggiamento di superiorità. Ricordo che quando ero a Lipsia, durante la guerra, veniva spesso nella nostra città dove c'erano molti suoi allievi. Formalmente il suo comportamento era molto gentile, ma l'ovvietà con cui ci trattava tutti come se fossimo un branco di ingenui era irritante, quasi offensiva". Era per Lei un grande? "Certo, era un grande, un grandissimo giurista, infinitamente superiore a tutti i giuristi della sua epoca. E per questo si divertiva a disputare in modo sofistico, a giocare con i suoi interlocutori come il gatto col topo. Si divertiva a recitare una parte, a inscenare dispute". In che senso? "Ricordo per esempio quando una volta, durante una sua visita a Lipsia, si discusse di un caso fittizio: se un uomo politico che aveva commesso un crimine comune dovesse essere sottoposto alla giustizia ordinaria. Carl Schmitt si divertì a difendere, con sopraffina abilità, la posizione dell'accusato, sostenendo che quel crimine doveva essere considerato come una debolezza irrilevante rispetto all'importanza dell'uomo politico. Il quale deve essere sottratto all'ordine dei comuni mortali: fa la legge, ma ne sta al di sopra; deve essere libero. Carl Schmitt difendeva questa tesi, per tutti noi assurda e inaccettabile, con un'abilità sofistica. Ciò che mi rese furibondo era che in realtà non riuscivamo a confutarlo, anche se era evidente che aveva passato il segno. Nel frattempo mi sono convinto che allora, come in altre occasioni, per lui si trattava di un gioco di abilità, nel quale si impegnava a fondo per il gusto del paradosso". Si potrebbe dire di lui che fu uno degli ultimi eredi del grande pensiero politico rinascimentale, l'ultimo dei machiavellici? "Forse, ma per me come protestante, ripeto, la sua interpretazione dell'ordinamento politico risulta difficile da capire e impossibile da condividere". Forse perché la sua ermeneutica è agli antipodi del decisionismo schmittiano? "Certo, anche per questo. Ma credo che anche il suo decisionismo, di cui tanto si è discusso, fosse soltanto una maschera dietro la quale si nascondeva. E' un gioco ironico con cui si è fatto beffe dei politologi contemporanei. Riteneva tutti gli intellettuali, filosofi compresi, degli ingenui giocherelloni che scambiano le loro diatribe per la reale dialettica del mondo, per la storia universale, il cui senso gli stava invece profondamente a cuore. Forse era troppo intelligente per noi". Ma davvero quello di Schmitt era un gioco ironico? "Sono convinto che se non si tiene conto di questo non si può entrare nell'anima del suo pensiero. Che era un concentrato di religiosità e di acume concettuale, al fondo della quale stava l'inaudita convinzione di essere l'autentico interprete dell'ordine cattolico della storia universale". +In fondo era amico di Kojève, che ha coniato, in un dibattito con Leo Strauss, il concetto di "ermeneutica della reticenza"... "Ho conosciuto anche lui, nel 1933 a Parigi. Anche Kojève aveva lo stesso identico gusto del paradosso di Carl Schmitt, e anche lui si è divertito a recitare la stessa parte, a giocare lo stesso gioco". Questo vale anche per Leo Strauss? "No, il suo caso è del tutto diverso. Era un moralista. L'ho conosciuto molto bene e posso dire che il suo cruccio era davvero la frattura tra filosofia e politica che fende tutto il pensiero contemporaneo, e che vedeva impersonata da Heidegger con il suo nichilismo. Di qui il suo rapporto ambiguo con lui: era profondamente impressionato dal suo genio filosofico, ma detestava la sua impoliticità". E la sua idea che un testo debba essere letto facendo più attenzione a ciò che non dice che a ciò che dice, questa forma di mimetismo dell'autore, in fondo è vicina all'ermeneutica... "Nell'ermeneutica della reticenza c'è del vero, ma non si possono rovesciare i termini del comprendere. Nessuno parlerebbe e direbbe tanto, se ciò che dicesse fosse falso. D'altra parte la parola proferita è sempre esposta al fraintendimento. Sono continuamente necessarie precisazioni e sfumature per evitarlo o correggerlo". Un altro personaggio che si era incuriosito e poi occupato molto presto di Carl Schmitt fu Walter Benjamin... "Ah, Walter Benjamin! Si potrebbe a lungo speculare su che cosa ne sarebbe stato di lui, che cosa mai sarebbe diventato...". Che cosa intende dire? "Che era una personalità talmente ricca, esplosiva, geniale, che sarebbe potuto diventare tutto e il contrario di tutto. La sua genialità era veramente fuori del comune, imprevedibile. Era uno del calibro di Carl Schmitt o di Heidegger. Ma Carl Schmitt aveva qualcosa di luciferino che né Heidegger né Benjamin avevano". Lei ha attraversato per intero questo secolo, che è stato un secolo del tutto particolare, un secolo di contraddizioni, di anomalie, di paradossi. Qual è il suo bilancio personale? "Direi che i totalitarismi, opposti eppure uguali, sono stati uno dei fenomeni funesti che hanno segnato questo secolo. Ricordo di avere vissuto come un tragico dilemma la situazione senza vie di uscita in cui ci eravamo venuti a trovare con il nazismo. Ritenevo allora mio dovere morale fare sapere ai miei allievi che ero contro Hitler. Ma quando Hitler dichiarò guerra a Stalin, era difficile far capire loro che ero al tempo stesso anche contro Stalin. Un dilemma esistenziale in cui non si sapeva che fare. Alcuni miei allievi, Walter Schulz per esempio, vissero ciò come una vera e propria crisi". +E' un secolo il nostro segnato dai totalitarismi ma anche dalla tecnica... "Il progresso tecnico è diventato il nostro destino, nel bene e nel male. Quale sistema politico assegnare alla tecnica per contenerla? La democrazia? Chissà. Ma se dovessi dire che cosa ai miei occhi è stato decisivo, risponderei che questo secolo ha inventato un'arma mediante la quale la vita sul pianeta può annientare se stessa. Questa è la situazione inquietante cui siamo esposti. Senza tenere conto di ciò, non si capisce nulla dell'attuale politica americana. Possiamo ancora sognare che alla fine una qualche potenza ci salverà. Forse questa potenza è Dio". Che cosa pensa dell'analisi dei totalitarismi elaborata da due studiosi così diversi come Hannah Arendt e Ernst Nolte, entrambi, sia pure in periodi diversi, allievi di Heidegger? "Hanno entrambi un po' di ragione. Ma se dovessi paragonare le loro dottrine politiche a quelle di Carl Schmitt, posso dire tutt'al più che sono dei bravi ragazzi. Che credono a tutto quello che dicono. Dal canto mio, ho scritto un saggio sull'incapacità politica dei filosofi. Non so quale sarà il nostro destino. Come accennavo, la difficoltà maggiore è trovare un ordine politico all'altezza del mondo organizzato secondo gli imperativi della tecnica, cioè globalizzato. Al riguardo sono piuttosto scettico. Non voglio fare previsioni catastrofiche, non amo i toni apocalittici. Ma non mi riesce difficile immaginare un ordine mondiale simile a uno Stato-formicaio, in cui l'occhio vigile degli apparati controllerà ciò che ogni singolo individuo fa o non fa. E' uno scenario per la civiltà umana non del tutto improbabile in un futuro nemmeno troppo remoto".
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