Le multinazionali attribuiscono il prezzo dei nuovi farmaci ai costi elevati di ricerca e sviluppo.
Tuttavia molto spesso almeno parte del finanziamento per la ricerca proviene dal settore pubblico, come nel caso della didanosina (DDI), un farmaco anti-HIV.
Inoltre fra i settori industriali, il profitto del settore farmaceutico è il più alto dopo quello dell’informatica, con una crescita annua del 16-18%. I margini di guadagno sono ripartiti interamente fra gli azionisti, oppure investiti nella pubblicità e nel sostegno ai candidati alla presidenza statunitense. Nemmeno in minima parte sono reinvestiti nella ricerca sulle malattie tropicali.
Le case produttrici non accettano la politica del doppio prezzo, che stabilisca un costo inferiore per i paesi più poveri.
Di fronte alle pressioni, le case farmaceutiche hanno assunto delle posizioni difensive non molto convincenti:
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hanno condizionato la ripresa degli studi sulle malattie dei poveri al rafforzamento della proprietà intellettuale nei Paesi in Via di Sviluppo, segnando il fallimento dell’iniziativa di una cinquantina di Paesi in Via di Sviluppo (fra i quali Argentina, Brasile, Cina, India, Egitto, Corea e Messico): per proteggere la propria industria locale, questi paesi hanno protetto solo i processi produttivi, ma non i prodotti finali; in tal modo si è potuto utilizzare la cosiddetta ingegneria inversa: a partire dal prodotto finito (e brevettato) si scopre un modo di produzione diverso e si ottiene un farmaco a prezzo molto più basso. Tuttavia le nuove leggi commerciali internazionali hanno imposto a tutti di proteggere i brevetti anche sui prodotti;
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si sono opposte alle
importazioni parallele, che favorirebbero le speculazioni, e quindi hanno respinto la richiesta di calibrare il prezzo dei prodotti sul reddito del singolo paese.
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hanno rivendicato l’importanza delle donazioni di farmaci alle popolazioni che non se li possono permettere.
Fonte M.S.F.
