Nick: ******| Oggetto: re:e bbir tu! Data: 22/12/2006 11.3.11 Visite: 69
WELBY NON C'È PIÙ. AMEN di VITTORIO FELTRI Ha avuto quello che voleva e aveva chiesto con insistenza: Welby è morto. Una mano pietosa ha staccato la spina del respiratore automatico, come sapete e come tutti immaginavamo sarebbe accaduto, e lui se ne è andato affidando l'anima al Padreterno, segno che era pure credente o quantomeno lo era diventato - accade a molti, quasi tutti - al momento di salire sulla barca nera di Caronte. Un'altra mano pietosa gli ha praticato una iniezione di sedativo allo scopo di lenire le estreme sofferenze, quelle del fiato che manca, dell'aria che non va giù, della gola che si stringe e provoca un senso insopportabile di soffocamento. Che male c'è ad aiutare un cristiano a volare via da questa terra, quando la esistenza è solo una pena, non ha un presente né un futuro, non offre nulla se non l'attesa di chiudere gli occhi? Per quanto mi sforzi di trovare un motivo di rimprovero contro chi si è adoperato per realizzare il desiderio di Welby - uscire di scena con serenità -, resto dell'idea sia stata imboccata la strada meno tortuosa: un addio senza rimpianti. Non so se ciò costituisca reato oppure sia tollerato dalla nostra lacunosa legislazione. Sento però che ha prevalso il buon senso, anzi, il senso pratico, quel sentimento che prescindendo da norme e pandette punta dritto al nocciolo del problema: porre un termine alle torture inflitte dalla natura (orrendamente crudele per definizione) a un essere umano privo di colpe ma non di sensibilità. In questa vicenda - forse l'ho già scritto hanno messo il becco tutti ma proprio tutti: sacristi, parroci, vescovi, teologi, filosofi, psicologi, sociologi, pubblici ministeri, giudici di vario livello, moralisti, politici e commentatori. Ciascuno ha detto la sua più o meno in buona fede. L'unico che pareva non aver titolo per esprimersi era lui, il malato, il solo che provasse sulla sua pelle il dolore scatenato da un morbo implacabile. Un dibattito mostruoso, un monte di parole gratuite: bisogna fare così, bisogna fare colà. La vita è un dono, la vita è un bene prezioso, non ci è consentito rifiutarla. Retorica, storielle edificanti: dedichiamo i nostri spasimi a Dio, espiamo i nostri peccati. Come è facile sdottoreggiare sul corpo inerte e sull'anima ferita degli altri. I tribunali che decidono di non decidere. I politici che discettano e prendono tempo. Gli editorialisti che arrotano il loro periodare elegante e denso di presunzioni. Ma andate al diavolo signori parolai e lasciate che la gente provveda a se stessa, niente imposizioni, nessun obbligo e nessun divieto. Probabilmente alla morte agognata da Welby seguiranno code velenose, e qualcuno avrà delle grane giudiziarie: la persona che fisicamente ha staccato la spina, il medico che davanti alle smorfie dell'agonizzante ha praticato l'iniezione analgesica o anestetica o e diavolo preferite definirla. Si aprirà un'inchiesta. Si svolgeranno interrogatori. Chi griderà al delitto, chi invocherà misericordia. Altre chiacchiere, chiacchiere vane. Abbiamo però una speranza. Che la vicenda tribolata del nostro amico Welby serva a qualcosa, dopo l'inconcludente piagnisteo delle prefiche votive. Serva a scuotere il mondo politico e lo spinga a riconoscere che ogni cittadino è padrone di sé e merita d'essere legittimato a scegliere il proprio destino quando il corpo è ridotto a contenitore dolente di organi incapaci a svolgere la loro funzione. La liberta non è una gran pretesa; spetta a tutti, specialmente a chi non può abusarne se non su se stesso.
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