Nick: diabolica Oggetto: come la penso io Data: 8/11/2006 20.55.17 Visite: 208
Secondo la teoria della stabilità egemonica, l’equilibrio di un area è realmente stabile se esiste una grande potenza (tale per valori condivisi, risorse possedute, forza della propria economia, capacità militare) a farvi da garante. A seguito del secondo conflitto mondiale, che ha visto gli Usa abbandonare definitivamente la propria tradizione isolazionista al fine di adempiere al ruolo che il fardello della propria superiorità (nella contingenza storica),gli aveva attribuito, e che ha definitivamente spodestato l’eurocentrismo del secolo precedente, i pesi e i contrappesi del mondo, già capovolti nel primo decennio del secolo, sono andati incontrovertibilmente in frantumi. La Guerra Fredda, poi, con la contrapposizione ideologica (e non solo) tra i due blocchi. non ha fatto altro che fungere da enorme lente d’ingrandimento su questo scenario globale che, a fronte di un Urss sempre più irruente e minacciosa, si è modellato attorno al comportamentismo di matrice occidentale. Per intenderci, la rivoluzione comportamentista, sorta negli anni 60’, altro non è che la conseguenza dei numerosi tentativi, da parte di studiosi e analisti internazionali di ampio raggio, di districare la matassa dell’impasse ideologica e trovare un margine d’interpretazione ad essa che fosse personale ma, allo stesso tempo, irrimediabilmente giustificatrice di una serie di concetti che dovevano necessariamente ricalcare la percezione convenzionalmente accettata dai poteri forti occidentali. Pena, l’isolamento intellettuale, politico e, nel peggiore ma non più raro dei casi, fisico. Cotale comportamentismo consistette nella progressiva codificazione inventariale di tutto ciò che caratterizzava l’Occidente, e che in quanto "normale" veniva irrimediabilmente contrapposto a tutto ciò che se ne discostava, cui andava affibbiato l’appellativo di "minaccia", "pericolo" o blandamente "sospettabile". Quanto appena detto lascia facilmente intendere quanto, la paralisi del bipolarismo coinvolgesse le società per intero, e non solo gli apparati statali e governativi. Gli Stati Uniti intanto crescevano, e diventavano un’iperpotenza, come molti l’hanno definita nell’ambito delle relazioni internazionali, e non tanto per le sue risorse materiali, quanto più per il suo potenziale ideologico: praticamente la sua capacità di farsi portatore di idee, valori, principi che in breve tempo vengono imitati e condivisi da larga parte del mondo. La fine della Guerra Fredda ha posto un grande dilemma per gli Usa: era l’unica superpotenza rimasta, oppure la caduta del blocco sovietico, rendeva impropria persino la definizione stessa di superpotenza? Come poteva Washington continuare ad esercitare la propria egemonia "benevola", se non esisteva nessun cattivo contro cui combattere e che legittimasse il proprio ruolo messianico? Congetture a parte, la Guerra del Golfo è parsa al mondo come un tentativo di far risorgere lo spauracchio del "temibile altro" che aveva caratterizzato i cinquant’anni precedenti. A testimonianza di ciò la maniera in cui il conflitto si svolse, ad ogni livello. Esso infatti veniva presentato all’opinione pubblica con la retorica della sfida ai valori della nostra civiltà, del pericolo imminente da cui doversi difendere…solita roba insomma. La diffusione dei mass media aiutò non poco l’opera d’evangelizzazione messa in atto dal governo statunitense, che attraverso i tubi catodici catapultava nelle nostre case delle immagini filtratissime della guerra in atto, e che mostravano piccole luci(esplosioni) sui cieli neri di Baghdad. Guardare il telegiornale era diventato qualcosa come starsene stesi su una spiaggia nella notte di San Lorenzo. Fu chiamata "guerra chirurgica", avrebbe colpito solo obiettivi militari, i civili e i massacri degli stessi ai nostri occhi non esistevano e riponevamo la nostra fiducia nelle mani di Zio Sam. A distanza di anni, nowadays come direbbero oltreoceano, sappiamo che di chirurgico quella guerra aveva ben poco, e che era un conflitto come tutti gli altri: sangue, dolore e interessi economici in gioco (il controllo del petrolio, n.d.a.). Ma come direbbe Nietzsche, la volontà umana ha sempre l’ultima parola su tutto, anche su ciò che crediamo non dipenda da essa, e allora come oggi la volontà di tenere confinate nel nostro inconscio le verità più scomode, prevalse su ogni considerazione morale. Diciamoci la verità, i morti non sono belli da vedere, ma nessuno di noi rinuncerebbe a servirsi di automobili, autobus e quant’altro per protestare contro le ingiustizie del bellum facere. Magari potremmo prendere esempio dal Giappone, leader mondiale nella costruzione delle c.d. auto verdi, ma quanta fatica ci costerebbe (direbbe l’italiano medio)! E allora perché pensare? Teniamo i nostri giganteschi didietro sulle comode poltrone di casa, panino rigorosamente comprato da Mc Donald in una mano, telecomando dell’altra e soffriamo per la sorte di tutte quelle vite spezzate, che la solidarietà fa tanto trend di questi tempi. La mia ironia è aspra, ma basta guardarsi attorno per capire che purtroppo il petrolio ci serve, perché nelle nostre democrazie conta il potere della maggioranza, e la maggioranza vuole le comodità. Allora inutile fingere sbigottimento e sorpresa quando viene reso noto che stranamente Saddam Hussein non possedeva le fantomatiche armi di distruzione di massa, all’origine dell’attuale conflitto Iraqueno, ed è meglio aprire gli occhi, senza strabuzzarli, per dirsi: la guerra è terribile, ma è una necessità, tanto più che oltre al petrolio stiamo anche facendo una cosa buona: esportiamo democrazia. Eh, che eroi! Ma torniamo al discorso principale. 11 Settembre 2001, attacco al World Trade Center della Grande Mela. Osama Bin Laden ha colpito al cuore dell’Occidente e ha imposto la sua presenza ovunque: libri di storia, telegiornali, ormai sembra impossibile persino farsi una doccia senza trovarselo tra gli accappatoi. All’indomani della sua elezione a Presidente degli Stati Uniti, Gorge W. Bush aveva dichiarato la propria volontà di dar vita ad un nuovo ordine mondiale, fatto di pace, liberismo e un’ingerenza statunitense negli affari altrui sempre più limitata: quasi pareva fosse arrivata la fine della storia tanto celebrata da Fukuyama. E poi? Poi i morti, poi il crollo delle torri, poi la paura. I "fondamentalisti" ci dichiaravano guerra e noi dovevamo rispondere. Il Presidente Bush tenne un discorso davanti alla nazione e al mondo, l’entusiasmo dei giorni del new order era ormai solo un ricordo, e il contegno impostogli dal suo ruolo istituzionale celava a stento il terrore che i suoi occhi lucidi manifestavano. "Non lasceremo impuniti gli assassini dei nostri fratelli", queste parole risuonarono come la più terribile delle constatazioni, e fummo costretti ad accettare con rabbia e rassegnazione che la storia ci stava sorprendendo ancora e di certo non con uno dei suoi momenti migliori. La battaglia infinita contro il terrorismo islamico e Al-Qaeda era cominciata, e aveva un primo nome: Afghanistan. Ci sembrava di camminare con un coltello piantato nella schiena, aprire il giornale non significava più godersi un po’ di sana noiosa politica, oppure la notizia di un conflitto etnico in una lontanissima provincia africana che ci avrebbe indotti a sentirci fortunati per essere nati nel mondo libero. No, lo scontro era a casa nostra, e aspettarci in prima pagina la foto di una metrò rasa al suolo o di un aereo schiantato contro il palazzo dell’Onu, era diventato più probabile che dimenticare di mettere lo zucchero nel caffè. Sui mezzi pubblici non si sentiva più parlare di chi avrebbe vinto lo scudetto, ma di quando Bin Laden avrebbe colpito l’Italia. Un giorno ero in treno e davanti a me c’erano due uomini, piuttosto distinti, che chiacchieravano della situazione internazionale e la paragonavano agli anni del bipolarismo. Sicché quella discussione costituì mio malgrado un grosso spunto di riflessione per la mia mente iperattiva e iniziai a chiedermi se la Guerra Fredda fosse veramente finita, o se non fosse semplicemente stata rimpiazzata da nuovi attori. Chiaramente il paragone può apparire improprio sulle prime, poiché è evidente che il peculiare equilibrio che, nel bene o nel male, definiva i tratti del periodo storico in questione, adesso è impensabile. Crisi o meno, si cercava di evitare qualsiasi tipo di scontro, nel timore che una cosa del genre potesse innescare un effetto domino all’interno di ciascuno dei blocchi, e scatenare implicazioni imprevedibili, e che avrebbe potuto risolversi in una guerra nucleare. Il mio dubbio sorge da una considerazione diversa, traente origine dalla possibilità che l’attuale antitesi tra oriente(findamentalista ed islamico) ed occidente (cristiano e liberista) possa costituire una nuova divisione in blocchi ideologicamente opposti. L’interrogativo da porsi è: può la compagine fondamentalista configurarsi come una modernissima Unione Sovietica? Può, la guerra in atto, essere considerata una nuova contrapposizione bipolare? La risposta è no. Probabilmente resterà sempre il dubbio che gli Stati Uniti stiano nuovamente sfruttando la situazione, come accadde agli inizi degli anni 90’, per riguadagnare terreno, per essere ancora e sempre più i protagonisti della storia. Oserei dire che c’è persino chi ipotizza una montatura ad hoc dell’intera vicenda, ipotesi dalla quale io dissento profondamente, poiché c’è molto di più in gioco che il petrolio, l’egemonia o il denaro: si tratta del più atavico istinto di sopravvivenza. La risposta è no per una serie di caratteristiche che distinguono profondamente la pseudo-minaccia comunista e quella fondamentalista di matrice islamica, prima fra tutte quella rappresentata dalla celebre espressione che Churchill usò nel suo discorso del 1947, in cui parlò di una "cortina di ferro che da Stettino a Trieste divideva l’Europa". Essì, si tratta proprio di sfere di influenza. Ma non nell’accezione più semplicistica e circoscritta dell’espressione, bensì secondo una logica completamente opposta e disarticolata. L’influenza dell’Unione Sovietica era profondamente territoriale, ed era visibilmente rappresentabile su ogni carta geografica dove era possibile indicare i confini che separavano la zona rossa dal resto del mondo. Probabilmente complice la globalizzazione imperante, il terrorismo islamico non ha confini, non ha territori, non ha limiti. Non a caso si parla di Al-Qaeda come una rete, come una serie di flussi che potenzialmente toccano ogni punto del mondo, come una specie di ragnatela che rischia di intrappolarci. Non è più "dove avanzi tu, indietreggio io", l’arte della guerra di Sun-tsu è descrizione di strategie belliche obsolete, oggi si può essere più sicuri in Iraq che in una metropolitana londinese. La guerra in Iraq, è stato l'apice della paura e della minaccia. Non da parte dell'amministrazione Bush, ma della comunità internazionale intera. Inutili i "io ci sto", "io non ci sto". La nostra paura ha offerto a Bush and co. la possibilità di sfruttare i nostri timori, da una parte, la nostra inadattabilità a ritmi economici meno sostenuti, per fare ciò che riteneva necessario fare: punire e prendere. Logiche geopolitiche vecchie come il mondo, quando mai l'appropriazione di risorse ha costituito motivo di sgomento per il mondo?Se Bush ha mentito è stato perchè sapeva che l'ipocrisia gli avrebbe permesso di raggiungere quell'obiettivo. Stamane i quotidiani di tutto il mondo gridavano a Bush "guarda, le elezioni di medio termine ti hanno dimostrato quanto la tua strategia fosse errata". Vero. sacrosanto. Non ho mai appoggiato la guerra in Iraq. Ma per i motivi da me esposti nel breve excursus precendente, io quella guerra l'ho capita. E non la giustifico io, assolutamente. E probabilmente non la giustificheranno soltanto i cittadini americani, ma la giustifica il modus vivendi di una civiltà intera, che non saprebbe sfruttare la rinuncia nemmeno se fosse l'ultimo strumento rimasto al mondo per combattere i propri nemici. Cosa odiano di Bush, i cittadini statunitensi?Il suo pragmatismo?Il fatto che ha compiuto le azioni che chiunque avrebbe pensato? Lo ripeto. Io non sono filoamericana, nel caso specifico. Ma credo che un enorme mea culpa farebbe ragionare un pò tutti. Da Bush a chi l'ha votato. Da D'alema all'ultimo dei soldati. E' stata una guerra sbagliata, sofferta, dispensabile, senza una vera vittoria a margine. Ma l'abbiamo determinata e voluta tutti. Tutti quanti. La pensate come me?No?nun m n fott. Questo è il mio parere. asking 4 more |