Nick: Viola* Oggetto: Amore, melodramma etc. Data: 15/10/2007 13.44.10 Visite: 440
avvertenza: papiello. se qualcuno ce la facesse a leggerlo, potrebbe dirmi la sua opinione su questo articolo che parla delle eroine del melodramma in modo "leggero"? tnx :D Si sa che l’amore appartiene a quelle cose che non richiedono di essere misurate. Si ama per quello che si può o per quello che si vuole. E nella maggior parte delle volte, per quello che si è capaci. Nonostante questa consapevolezza, sulla misura dell’amore tanti hanno costruoto la propria fortuna: i libri Harmony e i fotoromanzi, gli psicologi e le agenzie matrimoniali e, ultimamente a causa della cronaca nera, molti giornali. Fino a poco tempo fa, però, i campioni del genere erano i librettisti, i compositori e i teatri dell’opera lirica, favolosi antenati degli analisti sentimentali e di tante storie quotidiane. Da loro discende una grande letteratura della misura dell’amore; a loro soprattutto si deve l’invenzione – o meglio, l’individuazione del carattere – di quella particolare figura femminile che viene catalogata nella categoria delle "donne che amano troppo". Definizione che, a causa di quel "troppo", può sembrare critica, acritica e pregiudizievole, quando in realtà non è né casuale né esprime giudizi: l’avverbio esprime solo una qualità destinata inevitabilmente a provocare disastri fisici e/o mentali per chi ama troppo e qualche volta per il soggetto troppo amato. Va fatta una differenza tra le donne che amano troppo un solo uomo e le donne che amano troppi uomini: le prime sono molto sfortunate e le seconde molto fortunate, le prime si intestardiscono spesso sull’uomo sbagliato, le seconde non affrontano mai le turbe che il troppo amore per un solo uomo fa affiorare con il tempo. Per riportare il tutto al melodramma che ha inventato il genere, quindi, e semplificando, va detto che le prime sono tutte sorelle della Leonora del "Trovatore" verdiano e le seconde tante sorelle del "Così fan tutte" mozartiano: le donne che amano troppo sono disposte al sacrificio estremo per l’altro e non si godono nulla, quelle che amano troppi uomini sono sempre disposte a cambiare obiettivo, e si godono perlomeno lo straordinario giocvo dell’amore. Certo è difficile capire come si sia passati dalle "tigri di crudeltà, sfingi di inganni" delle tante maghe Alcine sparse nelle opere del Seicento e del Settecento, da Vivaldi a Haendel fino all’Armida di Rossini per esempio, alle vere "folli d’amore" del Melodramma dell’Ottocento, dove il troppo amore è l’elemento quotidiano che porta a guerre, omicidi, suicidi, ecatombe e disastri vari. Forse, a un certo punto ha vinto la linea inaugurata da Didone che nella "Dido and Aeneas" di Purcell non resiste all’abbandono e si ammazza. Ma Didone, pur donna colta e intelligente, che però, dice il suo popolo "come tanti grandi spiriti cospira contro se stessa", mentre compie l’atto estremo raccomanda generosa alla sua ancella Belinda "ricordati di me, ma dimentica il mio destino". La raccomandazione non fu mai ascoltata perché da qwuersto dramma di troppo amore del Seicento inizia ad apparire qui e là, spesso mascherata da "caso della vita", la supremazia dell’amore impossibile che lotta contro l’evidenza e sfocia nella perdita della vita. Di chi ama, ovviamente. Le avvisaglie si hanno già nella "Semele" di Haendel che, pur di giungere al contatto fisico con Giove, si fa bruciare dai suoi fulmini, morendo poco soddisafatta e molto contenta tra atroci dolori e riconoscendo solo alla fine il difetto del proprio sacrificio "Troppo tardi mi pento della mia empia vanità: lui arriva e la sua luce mi brucia". Ma se il peccato di Semele è stato di superbia, le sue colleghe che, appena arriva l’Ottocento, muoiono più o meno disgraziatamente o, bene che vada, perdono per sempre il bene della ragione, in realtà non hanno nulla da rimporoverarsi, se non la testardaggine dell’amare senza condizioni. E a volte anche senza motivo. Alle eroine di Donizetti, per esempio, basta un rapido incontro con un giovane rivale della famiglia di origine per perdere la testa definitivamente. Vedi "Lucia di Lammermoor" che aveva deciso che l’uomo della sua vita doveva essere Edgardo, solo lui per la vita, solo perché quel giovanotto coraggioso l’aveva protetta dalla carica di un toro furioso. Da lì ne combina di tutti i colori: giura sulla "tomba degli avi" di lui che non sarebbe stata di nessun altro, cerca di rimandare il matrimonio con un alleato di suo fratello, poi è costretta a sposarlo ma lo ammazza la sera stessa delle nozze. Così, lei impazzisce e poi si suicida con l’invocazione dell’amato assente: "Spargi d’amaro pianto il mio terrestre velo, mentre lassù nel cielo io pregherò per te". Capirai la consolazione, librettista crudele. Meglio che a Lucia va all’Imogene de "Il Pirata" di Bellini che piace pensare come alla capostipite di una certa tendenza pulp-sangunaria. La sua storia ripete lo schema: lei ama Gualtiero, un giovane amico del padre appena incrociato nelle stanze del palazzo, il quale deve scappare per mare inseguito da Manfredi, il nemico, che quindi costringe lei a sposare Ernesto; lei però non si rassegna e quando Gualtiero torna e viene praticamente squartato sul " palco funesto" lei è lì a farsi cadere addosso il sangue dell’amato e il tutto, ovviamente, le provoca una pazzia irreversibile. Come lei se ne trovano tante, fino ad arrivare alla sommatoria di tutti i casi: Leonora de "Il Trovatore" di Verdi. Ancorché capace di disegnare una figura estrema e forte come Lady Macbeth, che per propria ambizione spinge il marito ad ammazzare il re di Scozia, Giuseppe Verdi è il maggior inventore delle donne che amano troppo. Ne ha di tutti i tipi, tra cui Violetta della "Traviata", che in fondo cede alla preghiere del padre di Alfredo perché sa già che prima o poi deve morire di tisi, sembra la più sana. Dall’Amelia di "Un ballo in maschera" all’altra Leonora di "La forza del destino" fino alla Gilda del "Rigoletto" le donne di Verdi hanno tutte un solo obiettivo: un uomo, quello solo. E per lui sfidano mariti, fratelli e padri e alla fine impazziscono o muoiono tutte. Ma nessuna è al pari di Leonora: lei s’innamora di una voce, quella di Manrico che, guarda caso, è il nemico giurato del conte di Luna al quale lei è destinata. Ma Leonora niente, vuole Manrico e per lui prima si rinchiude in convento, poi viene rapita da Manrico e portata a vivere nei nascondigli sulle montagne. Ma poi Manrico viene arrestato mentra cerca di salvare la madre zingara Azucena ('di quella pira l’orrendo foco')e lei va a pietire al conte la grazia per l’amato ('mira d’acerbe lacrime spargo al tuo piede un rio; non basta il pianto? Svenami, ti bevi il sangue mio. Calpesta il mio cadavere, ma salva il Trovator') che però le risponde picche. Ma lei insiste, e infine , tra sé, medita il suicidio ('M’avrai, ma fredda esanime spoglia') e beve il veleno dal proprio anello: il suo scopo l’ha ottenuto, ha amato troppo un solo uomo. Ma il sacrificio è inutile, perché alla fine Manrico verrà messo sul rogo: la sola a vendicarsi è la zingara, perché in realtà Manrico è fratello del Conte. Proprio così: la parabola di Leonora riassume il dramma delle donne che amano troppo: soffrono molto e si sacrificano inutilmente. Poi nel melodramma verranno, è vero, le variazioni delle Butterfly e delle Mimì pucciniane. Ma quelle sono delle giovanissime illuse, generose sì ma un po’ sventate più che donne dal troppo amore. Quel gran misogino di Giacomo Puccini, invece, rovescia la questione e lascia in eredità un’altra tipologia di donne in amore: le Turandot, donne algide che, pur di non amare ('mai nessun m’avrà') sanno anche uccidere ('gli enigmi sono tre, la morte una'). Prima di capitolare davanti a un presuntuoso, che tanto somiglia al suo autore, che urla: "all’alba vincerò". "quanti amarono i tuoi istanti di lieta grazia e amarono la tua bellezza con falso e vero amore, ma un solo uomo amò in te l'anima pellegrina e amò il dolore del tuo mutevole volto" W.B. Yeats |